Benvenuti.
Qui si parla di miti, simboli,
storia e metastoria,
mondi vecchi e mondi nuovi,
e di cospirazioni
che attraversano i secoli.
Qui si scruta l'abisso,
e non si abbandona mai
la fiaccola.
Davanti al mare le piccole e grandi preoccupazioni si fanno molto distanti. Almeno, per me è sempre stato così. Mentre nel mondo continuavano a succedere cose, piccole e grandi, davanti al mare c’era chi si regalava qualche giorno di totale distacco. Disintossicazione, si potrebbe ben dire. Da bambino mi si diceva che occorre aver faticato tutto l’anno per poter dare il giusto peso alle vacanze, e che è proprio grazie a quella fatica che il riposo acquista valore. Personalmente penso che basterebbe un giorno di lavoro all’anno per poter apprezzare l’otium rigenerante prolungato. Sarà perchè difficilmente mi annoio, o forse perchè conosco più di mille modi in cui trascorrere il tempo senza far niente, e farlo bene. Ma queste sono divagazioni. Ora ci sono piccole e grandi preoccupazioni che richiedono nuovamente attenzione, e c’è un mondo che non ha smesso di girare, nel frattempo. Si riprende, piano piano.
Difficile descrivere a parole cosa sia lo zeimbekiko.
Essenzialmente una danza, un ritmo, scandito da un tempo in 9/8, assai diverso dalla sequenza dei 4/4 che caratterizza la musica occidentale.
Lo zeimbekiko ha origini secolari, detto anche la danza delle danze o la danza degli ubriachi, è un ballo solitario, improvvisato, un ballo per il quale non esistono scuole.
E lo zeimbekiko parla sempre della sofferenza del vivere, le danza attorno, la guarda negli occhi, senza pudore, e la sfida.
Quello che visto dal fuori potrebbe sembrare un semplice lamento, diviene in realtà un vero e proprio esorcizzare il dolore, un sezionarlo, descriverlo senza remore, per poi circondarlo ed isolarlo.
La tradizione dello zeimbekio continua ancora oggi, quella che segue è una recente composizione di Stelios Bikakis, Γενέθλια, interpretata da Notis Sfakianakis.
Nei sentieri del dolore
nel ponte dei sospiri
mi diede al mondo mia madre
Una serata d’autunno
il tuo freddo cuore
videro i miei occhi, vita.
Con sonagli di plastica
belli e colorati
mi cullavano
E quegli occhi piccoli
videro le bellezze del mondo
e si dissero d’accordo.
Fu il mio latte amaro
e la mia acqua salmastra
che mi faceva crescere
E di fronte alla mia culla
il mio destino malvagio
mi guardava orgoglioso
Era il mio pianto soffocato
come se volessi dire qualcosa
ma non mi capirono
Un respiro triste
per quella puttana di una vita
che mi avevano affibbiato
Così ho cominciato, quindi
così ho cominciato
non chiesero il mio parere, vita,
ma mi sono abituato a te
Come una piccola aquila ferita
che rantola a terra
cerco la forza di tenermi ancora in piedi
Sopra il fango e sui chiodi
nel fuoco del mondo ingiusto
ho iniziato a camminare
Un equilibrio stabile
per stare dietro alla vita,
ma ci son cascato
Solo la “a” e l’ acca
nei miei giorni di scuola
ho dapprima pronunciato
e questo “ah” e questo “perchè?”
ovunque vada mi accompagnano
anche se ho toccato i trenta
Così passava il tempo
ed io nella mia strada, curvo
facevo sogni
E’ capitato che fossi tra quelli
che nuotano tra le schiume
e tra le acque fangose
Scorre il sangue dell’anima
come le gocce di pioggia
ma a chi importa
E la ferita invisibile
che dentro me sanguina
chi la divide con me
Così ho cominciato, quindi
così ho cominciato
mi fecero vedere delle cose
ed altre ne ho incontrate
Mio Dio, se solo sapessi il giorno
in cui morirò
celebrerei il compleanno
della mia morte.
Nel discorrere della società e della sua struttura, si sostiene spesso la necessità di uno stato ben organizzato in grado di garantire la sicurezza dei cittadini e la difesa dei più deboli. La sicurezza, l’ordine e l’organizzazione del vivere civile sono, secondo questo punto di vista, gli elementi che rendono imprescindibile la presenza di un potere centrale che sappia regolare lo svolgimento del vivere quotidiano. Chi sostiene invece la nocività di un potere centrale, e vede lo stato come un ente costrittivo che limita enormemente la libertà del singolo, è tenuto a rispondere ad una serie di naturali obbiezioni, che riguardano le funzioni principali dello stato stesso prima menzionate: chi eviterebbe, in mancanza di un potere forte, che la società si trasformi in una giungla? Lasciando da parte per il momento una disquisizione tanto impegnativa, credo che un ottimo spunto per eventuali riflessioni possa essere dato dall’analisi di alcuni fatti storici, esperienze reali che possano offrire un interessante paradigma. A tal proposito mi piace spesso ricordare ciò che avvenne nella nazione greca in seguito alla rivoluzione del 1821, e la fine della egemonia ottomana.
Nel XIX secolo in Grecia si concluse la dominazione turca, che si protraeva da circa quattro secoli. La gestione del territorio era fino allora in mano ai rappresentanti del potere ottomano, e la terra era proprietà delle nobili famiglie turche. Come accade in ogni dominazione straniera, la maggior parte degli autoctoni lavorava queste terre in condizione di semi schiavitù. Con la fine della rivoluzione e l’allontanamento dei dominatori turchi, verso la metà del XIX secolo in gran parte della penisola greca si venne a creare quello che gli storici chiamano un vuoto di potere.
Lo stato greco si stava lentamente organizzando, venne scelta come capitale Atene, all’epoca un piccolo centro di poche migliaia di abitanti, e nel frattempo la popolazione nel resto del paese dovette continuare la propria vita. La prima questione da risolvere era la distribuzione della terra lasciata libera dai vecchi dominatori turchi. Nella provincia dell’Elide i campi vennero divisi in lotti dagli abitanti stessi, e per decidere come distribuirli si organizzarono delle corse con i cavalli. Ogni famiglia fu rappresentata da un cavaliere, ed in seguito alla gara il vincitore avrebbe scelto la porzione a lui più congeniale. Il secondo classificato sceglieva un altro lotto, e così via, fino che tutte le terre coltivabili fossero divise.
Prima della gara le comunità avevano stabilito quali terre assegnare alle vedove e agli orfani, affinché anch’essi potessero avere una fonte di sostentamento. In questo modo la vita ricominciò a prendere il suo ritmo, e le popolazioni del luogo furono, per la prima volta dopo secoli, proprietarie delle terre che coltivavano.
Essendo la terra alquanto fertile era in grado di dare sostentamento a tutti gli abitanti, e nel giro di pochi anni si poterono avviare anche le prime forme di commercio con mercanti stranieri, sfruttando il surplus della produzione.
Lo Stato centrale non si era ancora organizzato, e le varie comunità si amministravano in maniera autonoma, prevalentemente con le riunioni dei capofamiglia e la guida degli anziani di ogni paese. La vita procedeva tranquilla, pur senza polizia per le strade la gente non si ammazzava a vicenda. Finchè il governò centrale di Atene finalmente si diede una struttura, emanò le prime leggi, e formò un esercito nazionale.
Una delle prime leggi emanate riguardava la nazionalizzazione delle terre. Tutte le terre della nazione da quel momento divenivano proprietà dello Stato greco, in nome del popolo greco, ovviamente, e il primo compito dell’esercito greco neoformatosi fu espropriare con la forza le terre ai contadini che nel frattempo le avevano lavorate. In seguito le stesse terre furono rivendute dal governo, e finirono in gran parte in mano ai grandi latifondisti protettori dei governanti. I pochi contadini che riuscirono a ricomprarsi la propria terra dallo stato dovettero rivenderla a breve, poiché le tasse che nel frattempo il governo aveva imposto rendeva impossibile trarre guadagno dalla coltivazione diretta di piccole proprietà.
Nel giro di un decennio quindi i contadini si ritrovarono nuovamente a fare i braccianti, nuovamente in condizione di indigenza. Ai vecchi padroni turchi si erano semplicemente sostituiti quelli greci. Questo breve lasso di storia greca offre numerosi spunti di riflessione. Ovviamente è una storia che risale a più di un secolo e mezzo fa, e diversa era la società del tempo rispetto a quella attuale. Ma risultano, a mio parere, comunque significativi alcuni fatti.
Innanzitutto la popolazione dimostra di saper gestire e dividersi la terra in modo oculato ed equo, mostrando solidarietà verso gli elementi più deboli della comunità. La divisione non avviene mediante atti violenti, ma in base ad un comune accordo. In secondo luogo, la comunità prospera con il semplice esercizio della coltivazione della terra, laddove ognuno provvede ai propri bisogni lavorando la propria porzione. Infine, nessuna polizia risulta necessaria per il “mantenimento dell’ordine pubblico”. Le persone dimostrano di avere più convenienza nel collaborare che nello scannarsi a vicenda.
Al contrario, il primo gesto che lo stato appena formatosi compie è il togliere le terre ai contadini che le coltivavano e il concederle ai ricchi protettori latifondisti, che con i loro mezzi avevano permesso la formazione della elite governativa. E le tasse, imposte dal governo centrale per il proprio mantenimento, hanno fatto in modo che non risultasse più vantaggioso per i piccoli proprietari il mantenimento dei loro limitati possedimenti. Storie lontane, forse, ma gli esseri umani nel loro profondo rimangono sempre gli stessi. Sempre ci saranno coloro che vogliono solamente vivere in pace gli uni con gli altri, e coloro che con la scusa dell’organizzazione si ingegneranno per togliere ai molti e dare ai pochi.
Le origini del Rebetico si fanno risalire alle canzoni diffuse tra i detenuti nelle carceri greche del XIX secolo.
Il Rebetico venne a lungo considerato come la musica degli strati più bassi della società greca, confinato nei locali malfamati e nei luoghi di perdizione.
Narrava di amori difficili, di detenzioni, di droghe, ma anche della passione per la musica stessa.
Lo strumento protagonista del Rebetico, che ne caratterizza il suono, è il Bouzouki, strumento a tre corde, noto nell’antica Grecia con il nome di Pandouris, e giunto pressoché immutato ai giorni nostri (negli anni cinquanta Manolis Hiotis aggiunse al suo Bouzouki una quarta corda, creando una nuova “scuola”) .
La storia del Rebetico subisce una svolta importante nel 1922, l’ anno della Catastrofe dell’Asia Minore.
A seguito della sconfitta dell’esercito greco in Turchia, dopo che il governo ellenico aveva tentato una improbabile conquista spingendo i soldati fino alle porte di Ankara, le popolazioni greche che abitavano le coste dell’Asia Minore furono costrette a rifugiarsi in Grecia.
Questo episodio rappresenta tuttora la pagina più triste della storia della Grecia moderna; la presenza greca in Asia Minore risaliva al II millennio avanti Cristo, e da allora era stata una presenza costante, attraversando i millenni e le innumerevoli dominazioni straniere che avevano governato quelle terre.
Fino al 1922, con una tragedia che pose fine ad una storia di 3.000 anni.
Più di un milione di profughi giunsero in Grecia, in una nazione che contava all’epoca poco più di 4 milioni di abitanti, e portarono con sé le loro tradizioni e i loro usi: portarono con sé un pezzo di Asia.
La Grecia moderna è figlia di questa unione, che da allora le ha conferito quel carattere di incontro tra la civiltà occidentale e quella orientale.
Dal 1922 in poi il Rebetico quindi assorbe molto delle sonorità dell’Asia Minore, che a loro volta portavano in sé il ricordo delle melodie e dei canti Bizantini, con echi arabi ed indiani.
I testi parlavano ancora di vite sofferte, di speranze che nascevano nel buio della disperazione, e di vite dissolute, di droghe, di prigioni.
Nel 1937 il regime di Metaxas vietò e censurò gran parte della produzione del Rebetiko, che sopravvisse nell’illegalità.
Bisognerà aspettare gli anni che seguirono la seconda guerra mondiale affinché la valenza artistica del Rebetico fosse riconosciuta, e divenisse a tutti gli effetti un genere musicale popolare e nello stesso tempo non disdegnato dalle classi più “colte”.
Ancora oggi le produzioni del Rebetico continuano, tra riscoperte e reinterpretazioni dei classici di inizio secolo e nuove degne composizioni, a seguire un filo in verità mai interrotto.
I primi due video che seguono riproducono fedelmente l’atmosfera degli anni 20 e 30 dei locali in cui si suonava il Rebetico, una atmosfera che è possibile ritrovare ancora oggi, in luoghi che si rifiutano di seguire lo scorrere del tempo.
Nel terzo video Melissa Aslanidou reinterpreta in modo toccante un vecchio classico degli anni 60.
Of Aman, di Spiros Peristeris, 1934, Interpreta A. Iakovidis
Stou Thoma, dal Film Rebetico, musiche di S. Xarhakos, 1983.
Ti sou’kana kai pineis, Melissa Aslanidou
Dimmi perchè non mi permetti, con due baci
portare via dai tuoi occhi offuscati, le scure nubi
Cosa ti ho fatto e fumi, sigarette su sigarette e sono i tuoi occhi amari chiodi sul pavimento Dimmi perchè non mi permetti, con due baci portare via dai tuoi occhi offuscati, le scure nubi
I dolori che ti devastano, sono dolori doppi per me
si seccano nel mio cuore le lacrime che piangi
Se solo sapessi, come si agita quello che ho dentro, per te
che te ne stai lontano, e parola non mi rivolgi
Ogni anno la Grecia è devastata da incendi.
Dolosi, in maggior parte.
Ma una catastrofe del genere non si era mai vista.
Mai vista.
Due terzi dell’Elide sono in fiamme.
Ho lasciato quella terra settimana scorsa, un angolo di mediterraneo di una bellezza antica ed incontaminata.
Un “Paradiso in Terra”, come lo chiamarono i turchi conquistatori che vi giunsero nel XV secolo, conquistati a loro volta dalla maestosità degli ulivi, dalle colline dolci e dalle coste sinuose.
Gli amici e i familiari mi raccontano di un cielo scuro in cui il sole appare come una pallida imitazione di una spenta luna, la cenere è ovunque, e nell’orizzonte le fiamme sono una visione costante.
Io semplicemente non voglio crederci.
Chiunque tu sia
infedele,
idolatra o pagano,
vieni.
La nostra casa non è un luogo
di disperazione.
Anche se hai violato cento volte
un giuramento,
vieni lo stesso.
May the road rise
to meet you.
May the wind be always
at your back.
May the sun shine warm
upon your face.
And rains fall soft
upon your fields.
And until we meet again,
May God hold you
in the hollow of His hand.
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